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non nel tempo -- ma: in tempo
 
De Cive. Rivista di Pensiero Politico. Anno 1, N° 1, Gennaio-Giugno 1996, pag. 43-54 (46-54)
 

Bernd A. Laska

Katechon contro Eigner ?

La reazione di Carl Schmitt nei confronti di Max Stirner
- Parte 3 -

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Nell'epoca a partire dal 1948 Schmitt, cui era stato sottratto il professorato, esercitava dal suo "asilo" a Plettenberg in svariati modi un influsso non poco considerevole e sempre in ascesa su selezionati circoli accademici. (35) Questa attività e il connesso, rinnovato nonché intenso rivolgersi a "problemi estranei" gli permisero di interrompere il confronto con il "proprio problema" e di lasciarne cadere di nuovo il ricordo negli strati dell'inconscio. Con Stirner sparì dal suo »Glossarium« dopo il suo sessantesimo compleanno (11 luglio 1948) anche la frase dell'aprile 1947, più volte citata e in maniera enfatica, "il nemico è la figura del nostro proprio problema." Proprio nel 1963, quando Schmitt, in base ai contemporanei avvenimenti di politica mondiale, sviluppò, in una "teoria del partigiano" una volta di più nuove categorie di "inimicizia", il ricordo di questo complesso di idee, breve e senza alcuna traccia dell'occupazione affettiva di una volta, si calò fino alla penna: Stirner, come nel 1940, in un unico afflato con Bruno Bauer, entrambi come "partigiani dello spirito del tempo"; e quella frase sul "proprio problema", che egli descrisse nel passato come la chiave della sua opera, erraticamente e senza una funzione riconoscibile nel testo - memorizzata automaticamente. (36)

Se si considerano in Schmitt i passi in cui egli richiama Stirner, facendo attenzione tanto al rispettivo contesto quanto al loro affastellamento in sequenza cronologica, emerge innegabilmente l'impressione che Schmitt si difenda da Stirner come da un potere in qualche modo tentatore o anche nemico sul piano spirituale. Schmitt non sta, con questo atteggiamento di difesa, affatto da solo. Alcuni degli autori che si sono comportati allo stesso modo hanno descritto Stirner espressamente persino come "diabolus in philosophia" o come fondatore di una "religione del diavoIo." Affermazioni di questo tipo si trovano per lo più solo in posizioni lontane ovvero in carte postume. (37)

La citata impressione in ordine al tentativo di Schmitt, certamente non risoluto, di confondere in qualche modo Stirner con il "male" viene rafforzata se si chiama in causa la sua riflessione sul Katechon.

La parola, il concetto, l'idea del Katechon emerge per la prima volta negli scritti di Schmitt nel 1942. (38) Più frequentemente e con maggiore intensità Schmitt meditò sul Katechon negli anni 1946-50, come mostrano le sue pubblicazioni ed annotazioni di quel tempo. (39) Quindi, altri interessi rimossero quello sul Katechon, cosicché la sua breve considerazione del 1970 (40) si fa sentire solo come una debole risonanza. Solo la circostanza formale per cui l'intensità dell'interesse di Schmitt sull'idea del Katechon scorreva in modo temporalmente contiguo e parallelo con quella del suo interesse per i concetti rispettivamente del complesso di idee "Stirner" e del "nemico come la figura del nostro proprio problema", fa presumere una connessione interna tra tutti e tre pensieri in Schmitt. Questa ipotesi è destinata ad essere sostenuta in seguito mediante la produzione di una connessione contenutistica.

Katechon è un concetto della teologia cristiana. Esso viene per la prima volta utilizzato da Paolo nel 2° capitolo della 2ª lettera ai Tessalonicesi, che tratta della comparsa dell'oppositore di Cristo (Anticristo), destinata a precedere il ritorno di Cristo (con il cosiddetto tribunale dei giovani). Questa comparsa dell'oppositore viene descritta si come necessaria premessa per la ricomparsa di Cristo, ma l'oppositore non deve perciì, come si potrebbe pensare, nient'affatto essere prodotto subito, bensì, al contrario, de-

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ve essere oggetto di indugio e quindi essere combattuto con tutte le forze il più possibilmente a lungo. Ora, Paolo chiama il potere che combatte contro la venuta dell'oppositore, tanto come il quanto come la cosa Katechon, letteralmente cioè: colui che frena e rispettivamente ciò che frena.

Carl Schmitt, che proveniva dalla diaspora cattolica, fu, in qualità di studente ginnasiale e universitario, per un periodo di quasi cinque anni seguace di Stirner. Documentabile, utilizzabile con attendibilità è tuttavia solo il fatto che egli allora si entusiasmò per l' »Unico«, non come egli allora lo interpretava. Ad ogni modo, egli si vide subito internamente costretto ad abbandonare la propria posizione stirneriana e non solo a ricorrere al "poeta sibillino" Däubler, ma anche, senza quella religiosità, a fare "decisamente il salto nella paradossalità del cristianesimo", per "trovare con ciò anche la strada per uscire dalla prigione del suo spietato egoismo." (41) Schmitt ammirava la struttura politica e giuridica della Chiesa romana e la sua "terrenità" in quanto complexio oppositorum,  e questa ammirazione egli la conservì, nonostante alcune svolte e riserve, fino alla fine.

Davanti a questo scenario sono ricomponibili, già nei primi scritti di Schmitt, chiare tendenze "kateconiche"; perché essi per lo più presentano, anche se necessariamente rivolti anzitutto a scopi scientifici, una chiara tendenza polemica e il "nemico" che Schmitt combatte, per esempio l'individualismo moderno e liberalistico ovvero il socialismo ateo, gli si impongono come modalitÉ di apparizione dell'oppositore. Naturalmente, egli non chiama ciò per nome nei lavori che si mantengono nell'àmbito di un gergo specialistico. Ma nei suoi primi scritti sull' "Aurora boreale" di Däubler, nel capitolo sul significato attuale di questa poesia, l'oppositore emerge con il nome di "Anticristo": "Che cosa c'è di mostruoso in lui ? Perché fa più paura di un potente tiranno... ? Poiché sa imitare Cristo e si fa così simile a lui da ingannare l'anima di chiunque." (42) Un maggior dettaglio di Schmitt mostra chiaramente che egli vede in sostanza già nel suo scritto »Il valore dello Stato e il significato del singolo« tutte le tendenze epocali predominanti, tutti i liberalismi e i socialismi, come modalità di apparizione dell'oppositore.

Colui però che Schmitt avrebbe dovuto considerare l'autentico oppositore era Stirner. Questi era finora l'unico che si era levato, come sostenuto nella descrizione della lettera di Paolo, al di sopra di ogni tipo di Dio - e in effetti in modo così conseguente da avere ancora non solo deriso arditissimi atei come "pretacci", ma da averli classificati in modo sobrio e ben argomentato. Schmitt naturalmente sapeva ciò e deve perciò aver avuto grandi problemi per il fatto che Stirner, questo tipo di oppositore perfino vicino all'ideale, era al contempo il più fiero avversario delle ideologie viste come avversarie del moderno - come Schmitt stesso. Un ulteriore problema deve essere stato per lui il fatto che Stirner non sopportava l'essenziale caratteristica dell'oppositore classificata come complementare da Paolo: egli non si colloca al posto di Dio e non si nasconde dietro una facciata illusoria. Questa era anche la domanda che sempre nuovamente affliggeva Schmitt nel 1947, per esempio: "L'offesa più arrogante che mai sia stata arrecata dall'uomo a Dio... sta nel 'sive' della formula 'Deus sive Natura'. Ma questo il nostro Stirner non lo fa; egli non dice: lo ovvero Dio; oppure egli lo dice, ma non in modo seccante, non in modo fraudolento." (43) Oppure quando nell'aprile 1947 "nella cella", dopo desolate ingiurie a Stirner, chiedeva a sé stesso: "Vuoi di nuovo soggiacere all'inganno ? - L'autoinganno fa parte della solitudine... Nel nucleo più riposto della cella si annidano il soliloquio e l'autoinganno... Ogni inganno è e resta autoinganno. Il chiudersi di Max Stirner nella corazza dell'io è autoinganno supremo. Per questo è odiosa la mescolanza in lui di innocenza e scaltrezza, di provocazione sempliciotta e subdolo raggiro." (44) Odiosa? Schmitt è di nuovo sgomento nei confronti del "povero Max."

Schmitt non si è mai sentito tanto irritato da altro autore come da Stirner. Egli inoltre - all'epoca in cui si è coscientemente confrontato con lui - si è sentito irritato almeno altrettanto per il fatto che i suoi contemporanei non dimostravano di avere gli stessi problemi esistenziali con Stirner. Così Stirner divenne, pote apparirgli come - solo - la sua "figura del nostro proprio problema", come un "nemico" forse enigmatico, ma ben solo privato, con cui egli la spuntava - apparentemente - in modo dimostrato di sopra. D'ora innanzi, quando aveva deciso "che era del tutto inutile parlare di sé", (45) Schmitt avrebbe combattuto con una fila di nemici, con il che sempre sperava di incontrare quel nemico che presumibilmente è del tutto più importante del "proprio problema", il nemico provvidenziale di Dio e dell'uomo, l'oppositore di Cristo - con ciò diventando Katechon.

Schmitt credeva nella reale esistenza del Katechon, pensava che altrimenti non si potesse cogliere come piena di significato la storia occidentale. In verità, doveva esserci stato un Katechon per ogni epoca a partire dalla nascita di Cristo, "altrimenti non ci saremmo stati più." Schmitt richiama alcuni esempi: tanto persone, come il grande impe-

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ratore del medioevo cristiano, quanto anche istituzioni, come la chiesa romana. Eppure chi è oggi il Katechon? Questa domanda per lui molto importante, profondissima, Schmitt la pose nel 1947 ad un corrispondente epistolare - ed egli stesso fornisce una risposta rilevante: "Non si può certo ritenere lo sia Churchill o John Foster Dulles." Un'ipotesi positiva egli non la esprime. (46) Né si può tralasciare l'evidente contrasto tra domanda e risposta in un autore così sensibile alla lingua. Esso potrebbe ben dare un'indicazione nel senso che Schmitt era costretto qui a rifiutarsi di esprimere un pensiero segreto. Non poteva essere Katechon neanche per una volta un potere di tipo né mondiale né religioso, bensì un potere di tipo intellettuale, un singolo pensatore ? Schmitt descrisse sé stesso nel 1946 come "I'ultimo, consapevole rappresentante dello ius publicum Europaeum, l'ultimo ad averlo insegnato e indagato in senso esistenziale"; (47) egli sin dall'inizio ha pur sempre visto la propria posizione, nel contesto delle trasformazioni condizionate dalle situazioni, come quella di un lottatore solitario (con dubbiosi compagni occasionali) contro grandi e potentissime tendenze epocali. Vedeva egli quindi sé stesso segretamente come il Katechon della propria epoca?

Per molti interpreti di Schmitt a questa domanda occorre rispondere affermativamente, senza tanti complimenti. Anche se Schmitt ha scoperto in verità successivamente la forma del Katechon o l'ha chiamata per nome, la sua opera presenta tuttavia sin dall'inizio con chiarezza tratti katechonici. (48) Sicuramente non bisogna attendersi che Schmitt abbia lasciato un documento in cui parli di sè come del Katechon del tempo, ma la seguente notizia può essere letta come qualcosa di simile: "Questa è la segreta parola conclusiva della mia complessiva esistenza spirituale e pubblicistica: girare intorno all'approfondimento autenticamente cattolico." (49)

A partire da quando è stata resa nota questa notizia attraverso la pubblicazione del »Glossarium« di Schmitt nel 1991, molti hanno pensato che l'autentico arcano di Schmitt risultasse con ciò svelato. Eppure, che lo Schmitt notoriamente "enigmatico", che progetta labirinti e tende trappole, abbia in tale modo rivelato il proprio segreto centrale in queste annotazioni, alla cui pubblicazione in epoca successiva egli inoltre senz'altro pensava, è difficile da prendere per oro colato. Ma come potrebbe essere spiegata altrimenti l'osservazione?

Un'importante indicazione fornisce il dato. L'osservazione ebbe luogo il 16 giugno 1948, in un'epoca quindi in cui Schmitt aveva alle spalle la propria vivacissima lotta interna con Stirner e stava di lì a poco davanti al suo 60° compleanno, quando egli, come rende pubblico il suo "canto del sessantenne", chiuse definitivamente su di essa, leggi: nuovamente rimosse Stirner. Il verbale di quel "segreto" può dunque essere visto molto bene in connessione con questo processo. Esso poteva aver avuto la funzione - autosuggestiva tanto per lo scrittore quanto per il futuro lettore - di nascondere un segreto più profondo ed intimo.

Ma questo profondo segreto di Schmitt, perfino il suo sfuggire durato tutta la vita davanti a Stirner, che avrebbe potuto valere a maggior ragione come il suo autentico arcano, si era prima tradito in altro modo: nell'affermazione, esplicitamente riferita a Stirner, e in particolare nel ritorno dell'enigmatico epigramma un tempo emerso in stretta relazione con Däubler: Il nemico è la figura del nostro proprio problema, la cui seconda riga suona: Ed egli ci inseguirà, e noi lo inseguiremo fino alla medesima fine.

Mentre ora il concetto di nemico, all'interno del significato centrale ai fini della teoria politica di Schmitt, nonostante tutti i problemi che esso solleva, (50) è comunque conciliabile con il "girare" di Schmitt "intorno all'approfondimento autenticamente cattolico" e alla forma del Katechon, il nemico, così come appare in quell'epigramma, è qualcosa di totalmente diverso. Il nemico di cui all'epigramma non e il nemico politico, e neanche il nemico privato, non è né l'hostis  né l'inimicus.  Questo nemico è "nostro", cioè di un'altra "figura del problema". Cosa dunque si intende per "figura del problema" di Schmitt ?

Se si segue la ricostruzione sopra fornita del rapporto che Schmitt aveva con Stirner, apparirà difficilmente come un'interpretazione forzata, ma piuttosto come un completamento chiarificatore, il richiamo qui alla figura che per Stirner è alla base: quella del proprietario.

La rappresentazione della forma stirneriana del proprietario solleva tuttavia particolari problemi, e in effetti poiché il libro di Stirner, venuto fuori come scritto piuttosto occasionale, »L'unico e la sua proprietà«, non è

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scevro di scarsa chiarezza terminologica (51) e poiché d'altra parte Stirner ha evitato di dare, anche se affatto in modo intenzionale, lineamenti rigidi al proprietario - cosicché si ha a che fare qui, detto in forma esagerata, con una forma priva di forma. (52) Dev'essere quindi anzitutto dimostrato che è tuttavia pieno di senso parlare della "figura del proprietario".

Stirner sviluppò la figura, la modalità di pensiero o anche la visione del proprietario in contrapposizione tanto con Hegel quanto con i suoi critici di allora di "sinistra", gli illuministi, Ludwig Feuerbach e Bruno Bauer, che perciò debbono essere brevemente caratterizzati sotto l'aspetto che qui interessa.

Hegel aveva rimproverato al pensiero dell'illuminismo unilateralità, in quanto esso assegnava una ragione inerente, che era necessario riconoscere, solo alla natura, ma non al "mondo morale", alla storia della Kultur, allo Stato, alla fede, etc. Egli perciò si era dato il compito di eliminare la "fatale separazione" dello spirito occidentale, prodottasi attraverso l'illuminismo, mediante una complessiva "filosofia della conciliazione" del sapere, della fede e un concetto complessivo di ragione. Egli voleva perciò aiutare tutti quelli cui mancava una "naturale semplicità di costumi" verso una visione grazie alla quale la vera ragione si sarebbe mostrata non nel blaterìo illuministico, che intende prescrivere al mondo come esso deve essere, ma piuttosto nella "saggezza di vivere così come il proprio popolo", conseguita attraverso un duro lavoro contro la soggettività.

Poiché Hegel sapeva quanto profondamente una tale visione mancasse all'intelletto, egli chiedeva un'istruzione, da seguire fin dai primi anni, basata sulla seguente massima: "Momento fondamentale dell'educazione è la disciplina, che ha il senso di rompere l'ostinazione del bambino [ ... ]. Il razionale deve comparire in lui come la sua più propria soggettività [ ... ]. La moralità deve essere stata piantata nel bambino come sentimento..." (53)

I critici di sinistra di Hegel, che vennero fuori pochi anni dopo la sua morte, si proposero di far rivivere le idee dell'illuminismo francese, ossia il loro orientamento più radicale ed ateo, che in Germania non era mai stato realmente recepito e in Francia era già seppellito. Essi volevano contrapporre alla contemplativa filosofia hegeliana una "filosofia dei fatti", volevano non più solo interpretare il mondo, ma cambiarlo, cioè (secondo un metro da loro escogitato) migliorarlo, volevano dunque dire ad esso con energia come doveva essere. Eppure, proprio in un settore molto importante da questo punto di vista, quello dell'educazionie, i critici illuministi e rivoluzionari concordavano, senza esserne consapevoli, del tutto con Hegel. Così lo stesso anarchico Bakunin chiedeva che i fanciulli avrebbero dovuto "sentirsi fino alla vecchiaia del loro essere liberi... sotto il regime dell'autorità". Certo, questo era destinato a diventare più dolce con la vecchiaia avanzante, ma solo per il fatto che «con ciò i giovani divenuti adulti, se sono affrancati dalla legge, possono aver dimenticato come nella loro fanciullezza furono guidati e comandati da qualche cosa di diverso dalla libertà. (54)

Allo scopo di dar luogo all'uomo "razionale", in Hegel quello morale, per gli illuministi l'uomo libero ovvero quello della cosiddetta essenza del genere, da parte dei rappresentanti di queste due posizioni di fondo, altrimenti tali da comparire come opposte, venne quindi chiamato in causa con grande evidenza un metodo identico dal punto di vista dei principi: l'interiorizzazione da introdurre nella prima età della fanciullezza, forzata, brutale o manipolativa, in ogni modo "irrazionale", del sistema di valori di volta in volta ritenuto razionale, buono, giusto etc., sia esso storicamente tramandato e trovato, sia esso costruito, inventato.

Il solo Stirner riconobbe il male di base in una siffatta "formazione" perseguita da tutte le parti. Persino i suoi risultati più riusciti gli apparivano come piuttosto scioccanti: "Cosa sono in gran parte i nostri soggetti pieni di spirito ed educati ? Beffardi padroni di schiavi ed essi stessi schiavi." Dai "serragli" pedagogici venivano fuori nel migliore dei casi eruditi e "utili cittadini", ma questi sarebbero alla fine "nient'altro che uomini servili." Stirner vedeva - come Hegel - che il metodo dell'educazione è la cosa decisiva e chiedeva perciò in uno dei primi saggi contro Hegel e i suoi critici di sinistra - che "la volontà che finora opprimeva così brutalmente", non "poteva essere ul-

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teriormente indebolita", perché emergessero "persone libere, caratteri sovrani." (55)

Nel libro »L'unico e la sua proprietà« Stirner parla non più di uomini "liberi", "sovrani", "veri" etc., ma, sulla base di delimitazioni terminologiche, di "proprietario". Anche qui egli pone in luce, in opposizione agli illuministi e ai controilluministi, che il male fondamentale è proprio il fatto che "l'influsso morale" sia stato "il principale ingrediente della nostra educazione." (56) "L'influsso morale inizia là dove comincia l'umiliazione, ed anzi non è nient'altro che questa umiliazione stessa, la rottura e l'abbassamento dell'animo in umiltà." (57) Il male starebbe dunque nella circostanza per cui "tutta la nostra educazione prende le mosse dal fatto di produrre in noi sentimenti, dal fatto cioè di somministrarceli, invece di rimettere a noi la loro produzione, per quanto ciò possa riuscire." Gli ultimi sarebbero "propri", sarebbero sentimenti, il cui "proprietario" sono io. I primi sarebbero subito "sacri" per me, sebbene del tutto estranei, attraverso le modalità della loro implantazione; io non sarei il loro proprietario, bensì dipendente da essi, da essi "posseduto." (58)

Il concetto di sacro di Stirner è la chiave per la comprensione della sua figura del proprietario. "Tutto ciò di fronte a cui provate rispetto o venerazione merita di essere chiamato sacro." Mentre la naturale paura scioglierebbe l'impulso di liberarsi del potere del temuto, "nella venerazione, invece, le cose stanno diversamente. In essa non si teme solamente, ma si onora: la cosa temuta è diventata una potenza interiore, alla quale io non posso più sottrarmi... sono completamente nel suo potere... Io e la cosa temuta siamo un tutt'uno." Il sacro nel senso di Stirner rappresenta quindi la struttura normativa della rispettiva (casuale) società, originariamente estranea al bambino, introiettata, interiorizzata, e rappresenta il risultato essenziale di tutta la precedente educazione. È "in una parola ogni questione di coscienza"; è "inaccessibile, intangibile, al di fuori del suo proprio potere, cioè sopra di lui;" (59) è, con un'espressione pregnante, moderna, di uso corrente a partire da Freud ("L'Io e l'Es" del 1923), il Super-Io. (60) Il proprietario come tipo ideale è quindi anzitutto proprietario di sé stesso, dei suoi pensieri così come dei suoi istinti, ma anche proprietario del "mondo" (della natura, degli uomini, delle cose, dello Stato etc.), e in effetti nella misura in cui egli non vi si contrappone "con timore." (61) Il proprietario ("il suo Io") vive, pensa e agisce non nell'àmbito di un modo di fare irrazionale, sotto la costrizione inconscia di un super-io prodotto-estraneo; la sua autonomia è pura e non, come nelle altre filosofie - illuministiche come antilluministiche - in qualche modo pura eteronomia interiorizzata; è l'effettivo - evocato non solo come vuotamente convenzionale - maggiorenne, che ha quell'intelletto "proprio", al cui conseguente utilizzo egli non necessita affatto di essere intimato.

Sul proprietario quindi non viene detto nulla di più se non che egli non è influenzato e non è guidato nei suoi giudizi di valore da un super-io irrazionale. Sulle modalità con cui si presenterebbe un mondo di proprietari non c'è invero nulla da dire. Stirner pensava però che il precedente "mondo assolutamente sacro" con le sue molte etiche fondate religiosamente o irreligiosamente, ammonitrici a spirito di sacrificio e ad autorinnegamento, "era destinato infine a perdere la propria apparenza ingannatrice, non avendo lasciato dietro la propria effettività di millenni nient'altro che l'odierna - miseria." (62) Egli rimproverava ai suoi contemporanei rivoluzionari di avere anch'essi continuato a portare avanti questa miseria, nella misura in cui essi avevano combattuto solo "l'al di là che è fuori di noi", lasciando per contro "l'al di là che è in noi" (il sacro, la coscienza irrazionale, il super-io) intoccato e con ciò rimanendo prigionieri, a dispetto del loro ateismo spesso fanatico, all'interno del "cerchio magico della cristianità." (63)

La fine di quella miseria dell'uomo guidato dal super-io sarebbe un mondo del proprietario. Ciò non è certo conseguibile attraverso una "rivoluzione", perché proprietari emergono sì in singoli casi messi fortunatamente insieme attraverso l'autoliberazione individuale ("ribellione"), (64) ma solo nella misura dettata dalla società, in cui gli educatori eliminano dai bambini il loro "influsso morale" e almeno traggono le conseguenze di ciì: "I bambini insolenti non si lasceranno più importunare e abbindolare da voi e non avranno alcuna compassione per tutte quelle sciocchezze per le quali voi a memoria d'uomo andate matti e fantasticate: essi aboliranno l'ereditarietà, cioè non vorranno ereditare le vostre stupidaggini, come voi le avete ereditate dai vostri padri; essi cancelleranno il peccato originale." (65) Che una tale evoluzione, quando soprattutto si

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avviasse, diventi di lunga durata e tale da estendersi a molte generazioni, è stato chiaro a Stirner: "Le parole sono riservate al futuro: sono proprietario del mondo delle cose, e sono proprietario del mondo dello spirito." (66)

Sulla base di questi necessariamente scarsi dettagli sulla figura del proprietario di Stirner potrebbe almeno essere diventata chiara la radicalità antropologica dell'idea. Se si esaminano perciò quei testi di Carl Schmitt che risultano più importanti ai fini di questa tematica - per esempio il quarto capitolo di »Teologia politica« (1922) o il settimo capitolo de »Il concetto del politico« (1927, 2. ed. 1932) con la sua "professione di fede antropologica" - si riconosce allora facilmente che, con l'aiuto delle categorie che Schmitt colà utilizza, tutti i pensatori politico-filosofici potrebbero essere ordinati in un determinata collocazione - con una sola eccezione: Stirner.

Perciò meraviglia appena che Schmitt non si occupi in nessun luogo di Stirner nei suoi scritti teorici. Chi però conosce la linea della biografia intellettuale di Schmitt, così come sopra è stata ricostruita, acquisisce, con lo studio preciso della sua opera e in particolare del citato capitolo, nonché con lo studio preciso della sua precedente trattazione »Il valore dello Stato e il significato del singolo« (1914), la solida convinzione che Stirner abbia sviluppato, nella elaborazione di questi testi partendo dalla (postulata) rimozione, un chiaro effetto a distanza, certamente di tipo indiretto: essi gli appaiono sopra le righe, soprattutto nelle posizioni decisive, come una danza ideale sulle uova intorno a Stirner, condotta con sicurezza da un sonnambulo.

Se ciò non è stato percepito dal pubblico in questo modo, se Schmitt ha potuto evitare una discussione apertamente argomentativa con Stirner senza che qualcuno lo notasse, ciò è avvenuto sulla base di una semplice ragione: non c'era assolutamente nessuno che attribuisse a Stirner un rango intellettuale corrispondente, a tacer poi di una persona così straordinaria come Schmitt stesso (all'epoca in cui egli si occupò di lui). Schmitt avrebbe quindi dovuto mettere Stirner proprio in questo rango, per acquisire una posizione. È (o sarebbe stato) quindi per lui più facile razionalizzare in sé il fatto di evitare una discussione su Stirner e non intraprendere affatto quella danza sulle uova in quanto tale: perché, quale significato avrebbe avuto polemizzare contro quella posizione che nessuno rappresentava (fino ad essere il suo alter ego segreto, tale da importunarlo apertamente solo di rado con consapevolezza) ?

Il giovane Schmitt aveva terminato il proprio conflitto interno, che risultava dall'incontro con la figura del proprietario di Stirner, nel momento in cui lo dichiarava "nullo" (67) e accettava anzitutto il ruolo pretenzioso del combattente solitario che tentava di arrestare le preponderanti tendenze spirituali dell'epoca. (68) Schmitt conservò lo slancio katechonico anche nelle successive tappe della propria carriera, anche se di tanto in tanto era meno riconoscibile in ciì.. Oggetto dei suoi studi, centro del suo quadro teorico e pratico nonché campo d'azione divenne per lui "il politico", la sfera in cui si tratta del riconoscimento del "nemico". Qui Schmitt poteva perseguire ulteriormente le sue ambizioni katechoniche e combattere contro nemici potenti e grandiosi, che erano da identificare e da fermare come forme dell'Anticristo.

Una figura tuttavia Schmitt non poteva incontrare, con sicurezza su questo campo di battaglia, quella del proprietario stirneriano. Proprio una serie di colpi più duri del destino, che strapparono violentemente Schmitt dal ruolo del Katechon e dalla sfera del politico, portò ad un rinnovato confronto con Stirner e alla elaborazione della frase "sibillina", difficilmente da sopravvalutare in relazione al significato del pensiero schmittiano: il nemico è la figura del nostro proprio problema - il mio nemico è la figura del mia proprio problema.

Questo nemico, che non ricade all'interno di alcun concetto di nemico sviluppato da Schmitt nel corso della sua vita, Schmitt però lo evitò nuovamente. Egli si ritrovò subito nell'eroico ruolo del Katechon; perché - questo Schmitt l'aveva sperimentato per quattro decenni - le figure del Katechon e del proprietario appartengono a mondi differenti e come Katechon egli poteva incontrare sì molte figure di oppositori, ma mai la forma stirneriana del proprietario.


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NOTE

(35) Dirk van LAAK, Gespräche in der Sicherheit des Schweigens. Carl Schmitt in der politischen Geistesgeschichte der frühen Bundesrepublik, Berlin, Akademie-Verlag, 1994.

(36) Carl SCHMITT, Theorie des Partisanen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963. p. 25, nt. 15, p. 87 [Trad. it. Teoria del partigiano, Milano 1981, p. 13, nota 15]

(37) Cfr. il sopracitato comportamento di Husserl.

(38) Carl SCHMITT, Land und Meer, Leipzig, Reclam, 1942, p. 11s., 56 [trad. it. Terra e mare, a cura di Angelo Bolaffi, Milano 1986]

(39) ExCS, p. 31 [ed. it. cit., pp. 33-4], Glossarium, p. 63, 70, 153, 165,253, 272; Carl SCHMITT, Der Nomos der Erde, Köln, Greven-Verlag, 1950, p. 28-29. Dello stesso A., Drei Stufen historischer Sinngebung, in: Universitas, 5. Jg., (1950), p. 927-931

(40) Carl SCHMITT, Politische Theologie II, Berlin, Duncker & Humblot, 1970. p. 81 [trad. it. Teologia Politica II, Milano, 1992]

(41) Le citazioni derivano dall'introduzione di Carl Schmitt[-Dorotic] a: Johann Arnold KANNE, Aus meinem Leben, Furche-Verlag, 1919, p. 4; essi mostrano il motivo di Schmitt per il quale egli attribuisce a Kanne (1773-1824) una particolare "attualità spirituale" e quindi possono essere assunte anche sul piano autobiografico.

(42) Carl SCHMITT, Theodor Däublers "Nordlicht", cit., p. 61 [ed. it. cit., p. 88]

(43) Glossarium, p. 28 (7.10.47)

(44) ExCS, p. 88 [ed. it. cit. pp. 89-91]

(45) Lettera di Schmitt a Julius Bab del 13.9.1914, cit.

(46) Glossarium, p. 63 (19.12.1947)

(47) ExCS, p. 75 [ed. it. cit. p. 78]

(48) Qui da ultimo e prima nel modo più dettagliato possibile:
Günter MEUTER, Der Katechon. Zu Carl Schmitts fundamentalistischer Kritik der Zeit, Berlin, Duncker & Humblot, 1994, p. 553. Meuter è inoltre il primo autore che tematizza la relazione, conosciuta dal 1950, di Schmitt con Stirner (p. 421-445), anche se con altre premesse, metodi e intenzioni rispetto a qui.

(49) Glossarium, p. 165.

(50) Schmitt stesso pensa in un suo scritto successivo: "Nello stesso concetto di nemico deve esserci una confusione..." in: Carl SCHMITT, Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963. p. 88 [trad. it. cit.]

(51) Stirner utilizza in tal modo, in parte per motivi polemici, l'espressione "egoista" per lo più come sinonimo di "proprietario", ma talvolta anche come sinonimo per soggetti che non sono affatto proprietari egoisti ingannati, involontari etc. Inoltre, egli parla del "singolo", dell' "Eigenen" e naturalmente, vedi il titolo del libro, dell' "Unico", la cui relazione terminologica rispetto al "proprietario" e rispettivamente all' "egoista" non richiede qui tuttavia di essere chiarita.

(52) La sterminata letteratura secondaria su Stirner ha appena fatto chiarezza in questa questione centrale. Persino una monografia chiaramente pertinente di più di 500 pagine (Bernd KAST, Die Thematik des "Eigners " in der Philosophie Max Stirners, Bonn, Bouvier 1979) si mostra ad uno studio attento come di poco aiuto. In un precedente lavoro (»Max Stirner als "pädagogischer" "Anarchist"«, in: Anarchismus und Pädagogik, ed. Ulrich Klemm, Frankfurt/M, Dipa-Verlag, 1991, p. 33-44) ho tentato di demolire la problematica della figura del "proprietario".

(53) G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts, §§ 174, 175, appendici (rilievo B.A.L.) [trad. it., Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954]

(54) Michail BAKUNIN, Prinzipien und Organisation der internationalen revolutionären Gesellschaft (1866), in ID, Gesammelte Werke, vol. 3, Berlin, Der Syndikalist, 1924. p. 25 (rilievo B.A.L.)

(55) Max STIRNER, Das unwahre Prinzip unserer Erziehung (1842), in: PKR, 75-97 (91,90,94) [trad. it., Il falso principio della nostra educazione, Catania, 1982]

(56) EE 332.

(57) EE 88 [ed. it. cit., p. 109]

(58) EE 70s.

(59) EE 77s. [ed. it. cit., p. 101-2]

(60) Il concetto è già dapprima da segnalare e in effetti in modo più appropriato in una caratterizzazione di Stirner in: Friedrich JODL, Geschichte der Ethik, 2 vol., 2. ed. 1912, p. 282.

(61) Cfr. per es. EE 183, 374

(62) PKR 169; EE 346

(63) EE 170, 410 (per es.)

(64) EE 354ss.

(65) EE 89 [ed. it. cit. p. 110]

(66) EE 72.

(67) Cfr. la più volte citata lettera a Julius Bab del 13.9.1914, cit.

(68) Cfr. Carl SCHMITT, Der Wert des Staates, cit.


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Traduzione dal tedesco di Clemente Forte

Copyright 2001 © by Bernd A. Laska
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